“Appena uscita dall’aeroporto di San Salvador ho avuto subito la sensazione che quel Paese mi avrebbe dato tanto. Il caldo era quasi insopportabile ma quel clima mi faceva sentire a casa. Abito a Milano, la cosa non aveva senso ma è quello che ho provato. Il viaggio era stato lungo, eravamo tutti abbastanza provati, e ci aspettavano ancora due ore di bus per arrivare a destinazione: la Casa N.P.H. di Santa Ana.
La stanchezza era palpabile, la voglia di arrivare anche ma ricordo di aver trascorso tutto il tempo a guardare fuori dal finestrino; e chilometro dopo chilometro la mia sensazione iniziale si faceva sempre più forte.
Siamo arrivati tardi nella Casa e l’unica cosa che potevamo fare era andare a dormire.
Il giorno seguente abbiamo iniziato a conoscere la Casa e le persone che la abitano, abbiamo iniziato a prendere confidenza con la struttura e i ritmi locali e ci sono state le prime conoscenze, i primi timidi approcci.
Poi ho visto lui, con la sua pelle scura e i denti bianchi, con il suo sorriso aperto e i suoi occhi grandi e dolci: ed è stato subito amore. Mi ha invitato a mangiare con lui, ha voluto che ci sedessimo lontani dagli altri e io lo ho assecondato. Aveva voglia di conoscermi, aveva voglia di raccontarmi di lui, aveva voglia di sapere di me e della mia vita in Italia. Mi aveva scelto. E io avevo scelto lui.
E’ stato un amore a prima vista e reciproco: questa nostra conoscenza non si è fermata al primo giorno, è migliorata con il passare del tempo, timidamente e con discrezione. Per un attimo mi è sembrato di rivivere le sensazioni e le emozioni provate alla nascita di mio figlio, e così, all’improvviso mi sono ritrovata ad avere un altro figlio maschio, ad avere nei suoi confronti quello spirito di protezione che tutte le madri provano nei confronti dei loro cuccioli. E il desiderio, profondo e sincero, di aiutarlo nella sua crescita, di sostenerlo e incitarlo, di essere per lui un porto sicuro nel quale approdare. Sempre, a dispetto della lontananza, della lingua, dei pregiudizi, delle critiche.
Mi ha scritto lettere, ogni parola e ogni disegno pieni d’affetto, mi ha fatto dei regali, lui a me, lui che non possiede niente e divide le scarpe da ginnastica con un altro ragazzo, una generosità imparata negli anni vissuti nella Casa che ha molto da insegnare a noi, incontentabili e spesso egoisti. Conserverò quei doni gelosamente come fossero pietre preziose. Perché in fondo lo sono, pietre che racchiudono tutti i colori di un’anima bella e onesta.
E poi c’è lei, di una bellezza sconvolgente e inconsapevole, un sorriso bellissimo dietro il quale nasconde timidezza e sofferenze. Non l’aveva mai vista in giro per la Casa. Stavo passando per caso nella clinica interna alla Casa, mi ha chiamato e mi ha chiesto di entrare. Ci siamo presentate, ha chiesto di me e che cosa facessi in Fondazione, sempre ridendo. Le ho domandato come mai fosse in clinica: stava cercando di recuperare peso. Ci siamo parlate, con difficoltà visto il mio pessimo spagnolo, ma ci siamo capite. Poi mi ha chiesto di aiutarla a fare un compito, una traduzione dall’inglese allo spagnolo. Come dirle di no: e così, ridendo a crepapelle per il mio spagnolo maccheronico e la gestualità con la quale cercavo di farmi capire quando mi mancavano le parole, abbiamo fatto insieme i compiti. Sicuramente avrebbe potuto cavarsela da sola, ma credo mi abbia messo alla prova, forse è stato solo un modo per capire se io fossi la persona giusta, quella persona che non ha mai avuto e che continua a cercare. E mi ha scelto, la diffidenza iniziale è scomparsa, ha iniziato a prendere confidenza, a raccontarsi, a cercarmi anche nei giorni seguenti quando, appena ne avessi la possibilità, passavo a trovarla e mi assicuravo che mangiasse.
Ha iniziato a chiamarmi madre, ne sono stata onorata e spaventata allo stesso tempo, ha iniziato a definire i miei figli suoi hermanos italianos. Come non amarla, come non sentire il bisogno viscerale di proteggerla, come non prometterle che, oltre alla famiglia N.P.H. che l’ha cresciuta, ora poteva contare anche su di me. Il mio cuore ha accolto anche lei, ora la mia è una famiglia allargata e un po’ particolare.
Lasciarli e tornare in Italia è stato struggente, il pensiero di poterli rivedere magari l’anno prossimo, non è bastato a placarmi. Un abbraccio, un altro, un altro ancora ogni volta dicendo che sarebbe stato l’ultimo. Lui che diceva a me di essere forte. Si, perché lui è più forte di me, lui è abituato all’abbandono, al distacco, alla solitudine interiore che neppure una famiglia come N.P.H. può colmare. Lei che mi chiedeva di non dimenticarla, di tornare a trovarla, di salutare i suoi fratelli italiani.
Penso a loro ogni giorno, vorrei parlare con loro come faccio con i miei figli che ormai li chiamano hermanos, sono nel mio cuore e li rimarranno. E chissà forse un giorno…”
- Monica, Campus Casa NPH El Salvador